L’aria calda e umida, fuori dal circolo, mi fa pensare che verrà a piovere. No, mi fa sperare che verrà a piovere, che questo porti un po’ di fresco, che porti via un po’ di pesantezza, lasciando un po’ di levità, di sorrisi, di voglia di camminare a testa alta, passi lunghi ben distesi. Mi accendo una sigaretta e mi siedo su uno dei gradini consunti, guardando le macchine che passano, studiando le persone che mi attraversano la strada: ragazzi e ragazze che vanno a godersi il venerdì sera, vestiti corti, tacchi alti, cappelli tenuti con cura, acconciature complicate, pantaloni aderenti, scarpe di vernice. Qualcuno mi guarda, con la mia t-shirt sdrucita e i miei capelli disordinati, ma subito rivolge altrove l’attenzione. Non è difficile essere fuori posto, basta stare fermi lì dove si è.
Lui esce dal circolo, uno scricciolo d’uomo sul metro e 60, magro, i tendini delle braccia che si possono quasi vedere a occhio nudo sugli avambracci che spuntano dalle maniche della camicia arrotolate. Si accende una sigaretta e si siede sul mio stesso gradino, leggermente distante. Ci scambiamo un saluto con il capo, senza dire niente, involontariamente uniti dal vizio del fumo.
– A che ora chiudete, di solito? – chiedo, giusto per non stare in uno di quei silenzi imbarazzanti di cui parlava Mia Wallace.
– Mah. Dipende. Alle due si chiudono le porte, poi dipende da quanta gente c’è dentro. Due, due e mezza.
– Capisco.
– Se poi sono amici anche le quattro, quattro e mezza – aggiunge.
Ha due occhi stretti, fessure da cui vedo solo una macchia scura, profonda, che mi studia con attenzione.
– Ha l’accento genovese – dico, mentre sputo fuori il fumo. – Lei non è di Milano, vero?
Scuote la testa e aspetta un attimo, a rispondere, come se cercasse di ricordare da dove è partito, per arrivare fino a qui.
– Io sono sardo – comincia.
– Di dove?
– Cagliari.
Allungo la mano, lui me la stringe. Ha anelli d’argento alle dita e un braccialetto fatto di anelli intrecciati al polso destro.
– Anche tu sei sardo – dice, sogghignando, – qualcosa si sente ancora.
– Sì, sono di Nuoro.
– Ecco. Io sono di Cagliari, ma nel ’59 sono andato a vivere a Genova. Ci sono stato un po’ di anni, poi mi sono spostato a Milano.
– Torna ancora in Sardegna?
– Ogni tanto. Ma più che altro tornavo a Genova, perché c’era mia moglie lì. Almeno fino a due anni fa, poi è morta.
Infila la mano nel taschino della camicia e tira fuori il suo pacchetto di Malboro, porgendomene una. Ringrazio con un cenno della mano, ma non la prendo. Si accende un’altra sigaretta e mi lancia un’occhiata.
– L’anno prossimo vado in pensione, sai? Ho sempre lavorato qui. Milano non mi piace, ma ho sempre trovato lavoro, qui, e quindi ci sono rimasto. Dall’anno prossimo passerò sei mesi a Cagliari e sei mesi a Genova.
– Mi pare un bel progetto.
– Per i figli, sai. Ho sette figli, io.
Lo osservo, stupito.
– Sette figli?
Mi sorride, orgoglioso e butta cenere sul marciapiede.
– Sua moglie è morta due anni fa?
– Sì.
– Quanto siete stati sposati?
– Quattordici anni.
Annuisce. Mi guardo in giro, inspirando a fondo un paio di volte. A volte si può imparare qualcosa dalle persone più inaspettate, nei momenti più imprevisti.
– Qual è il segreto? – gli chiedo.
Lui sorride, sardonico.
– Il segreto – ridacchia.
Dà un paio di tiri di sigaretta e poi mi guarda, sornione.
– Io ho vissuto qui a Milano, perché lavoravo tanto. Ho sempre lavorato molto, mi piace lavorare ed ero felice così, non chiedevo altro. A mia moglie Milano non piaceva, però, e quindi è rimasta a Genova.
– Era a Genova?
– Sì. La vedevo una volta al mese.
Rimango un attimo in silenzio, cercando di comprendere. Poi mi sporgo in avanti e lo fisso, gli occhi socchiusi, la fronte aggrottata.
– Quindi mi sta dicendo che il segreto è non vedersi mai?
– Esatto – annuisce.
No. Non aveva decisamente un cazzo di niente da insegnarmi.
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