Le stagioni e i sorrisi son danari che van spesi con dovuta proprietà…

C’è stato un momento – nella lunga strada che sono stati gli ultimi sei anni – in cui ho tagliato corto con un sacco di cose. Non voglio dire che, prima, fossi una drama queen, ma sì, prima ero una drama queen. Di quella della peggior specie, tra l’altro. Di quella che crede che quasi la maggior parte dei successi debbano passare tramite la sofferenza e il torturarsi e il chiedersi perché, o perché proprio a me?
Poi è successo che ho subito un trauma brutto davvero, in cui non c’era bisogno di fare la drama queen per chiedersi “perché proprio a me?” e l’effetto immediato è stato che, di colpo, tutti gli orpelli e la necessità di sentirsi speciale tramite la sofferenza sono caduti a terra come pezzi di armatura che non servono più.
Il che non significa che non soffra come tutti, ma che, infine, è arrivato quel momento in cui ho cominciato a fare una netta (pure troppo, a volte, lo ammetto) distinzione tra cosa meritava che io  stessi male e cosa, invece, poteva essere un leggero fastidio da superare con una scrollata di spalle. È arrivato quel momento in cui ho deciso che c’erano cose per cui non valeva la pena di soffrire e che, anzi, nel momento in cui cominciavano a esigere un tributo di sangue che non ritenevo necessario, era il momento di lasciarle andare, anziché attaccarcisi testardamente.
Non voglio dire che sia sempre giusto, ma non riesco a negare che sia, spesso, stata la decisione giusta. Perché ci sono cose che dovrebbero non dico essere facili, ma che dovrebbero portarti più benefici che problemi e che, quando non è così, forse non vale la pena di caricarsi sulle spalle.
Mentre rileggo queste righe mi rendo conto che può suonare molto duro e che il me stesso di molti anni fa non avrebbe concordato, anzi, che avrebbe detto che, invece, bisognava lottare e dare possibilità.
La verità è che no, non si deve fare niente del genere. Lo si fa se si sente che ne valga la pena. Quando non è così, si tira avanti. Senza drammi, senza odio, senza sofferenze, ma limitandosi a capire che, a volte, una rottura, di qualsiasi tipo si tratta, non è un fallimento, ma semplicemente accettare che non era destino.

Tutto questo discorso pieno di auto consapevolezza e di sapienza ha sempre avuto un solo scoglio, che è quello delle amicizie. Per dirla chiara e facile: sono un mio grosso nodo e lo sono sempre stato. Fin da bambino ho sempre creduto molto nei rapporti di amicizia, particolarmente quando diventavano qualcosa di profondo. Mi spingo a dire che un’amicizia che finisce – particolarmente quelle che si sfaldano in modo traumatico o senza senso – per me sono sempre state dolorose al pari delle relazioni amorose che si chiudono (magari non ugualmente, ma poco ci manca). La mia acquisita filosofia del “let it go”, vacilla sempre, sempre, quando c’è di mezzo un’amicizia. E sono sicuro che un bravo strizzacervelli saprebbe dirmi perché, indicarmi quel momento, quell’occasione, quella persona specifica, che hanno influenzato così tanto sul mio modo di pensare da vedere negli amici questi pezzi di famiglia da cui mi è difficile staccarmi. Non avendone uno e non avendo né tempo, né voglia di ripercorrere la mia vita per cercare il nodo – anche perché, banalmente, credo di sapere bene quale sia – l’unica cosa è accettare il fatto che è così e non ci posso fare niente.
Potrei – e dovrei, aggiungo, – essere capace di intuire quando i rapporti non sono ricambiati. Quando le energie che ci investo non sono le medesime, dall’altra parte. Quando le cose che vedo io, non trovano riscontro nella visione altrui. Potrei dire che ci sto lavorando, ma la verità è che, ogni volta che sbatto il muso contro un rapporto che si deteriora, faccio clamorosi passi indietro e mi ritrovo a macerarmi per giorni.
Quindi, l’unica cosa che posso fare, è compiere quel passo finale, quello di andare dall’altra persona e dire “che succede?” e, dopo di che, accettare quello che ne viene e capire che, anche qui, il lasciare andare non è un fallimento, ma, semplicemente, l’accettare che non era destino.

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