Sono seduto al tavolino di un bar di Valencia, vicino al Rio. Fuori ci sono 32 gradi e umidità altissima. Sto bevendo una spremuta d’arancia e cercando di smettere di sudare, quando alzo lo sguardo dal Kindle e mi accorgo che, due tavoli più in là, sta seduto John Goodman.
A me piace molto, John Goodman. È uno di quegli attori che vorrei far recitare in ogni film (e, insomma, ha fatto i Coen, ma pure I Flintstones e Le ragazze del Coyote Ugly, diciamolo, quindi, forse, recita davvero in ogni film). Ha una recitazione che adoro, una fisicità pazzesca ed è capace riempire lo schermo anche stando immobile.
Veste dei pantaloni chiari e una maglietta blu scuro. In testa ha, calato, un cappellino da basket, con un logo che non riconosco. Ha la barba lunga, bella folta e sta leggendo un giornale.
Vede che lo vedo, mi fissa un attimo, poi riprende a leggere.
E io vorrei dirgli qualcosa. Non sono uno che ama andare a parlare con la gente famosa. Non mi interessano le foto insieme o gli autografi. Credo che uno che gira per strada o beve un caffè, debba avere il diritto di farlo senza che qualcuno vado a rompergli le balle.
Però, non so perché, a John Goodman, vorrei stringergli la mano e, quindi, sto lì a chiedermi cosa potrei dirgli. Mi interrogo su come rompere il ghiaccio. Come dirgli “oh John, a te un Oscar te lo devono, anche se hai fatto Le ragazze del Coyote Ugly”. Lo trovo ingrassato. Quando l’ho visto in “Kong: Skull Island”, qualche mese fa, era più magro. Immagino che, alla sua età, sia difficile tenere il peso, che il corpo ti dia meno retta.
E sto lì che penso a tutte queste cose, quando John Goodman alza lo sguardo dal giornale, mi guarda ed esclama “¿Que coño miras, hombre?”.
E niente. Non era John Goodman.