You’re gonna make me wonder what I’m doing, staying far behind without you…

I tuoi innamoramenti – di autori, canzoni, film, luoghi – sono duraturi o poi perdono entusiasmo?

Sono una persona che si affeziona molto facilmente e sono decisamente tendente alla melanconia e alla nostalgia. In Limiti di Caparezza, c’è quella strofa che canta “nessuna logica mi salva, sai/ sono un fottuto nostalgico/ non mi riprenderò mai” che mi rappresenta al 110%.

Quindi, a volte, mi capita di sentire la mancanza anche di luoghi o situazioni che, sul momento, ho odiato. Per esempio: ci sono volte che mi manca il mio lavoro di organizzazione eventi, pur sapendo quanto ho odiato farlo. Ma il giorno dell’evento, essere in loco, vedere i pezzi andare al loro posto, avere a che fare con i fornitori con i quali avevo ottimi rapporti, era l’unica parte del lavoro che amavo (e che, comunque, non era sufficiente a controbilanciare la pressione, lo stress, le volte che i pezzi non andavano al loro posto, la mia capa).

Detto questo, però, quando mi innamoro seriamente, ciò che provo dura a lungo. Esempi classici: il mio amore per Parigi e per Londra, per la musica di Dylan o dei Flogging Molly, per Bologna, per certi libri, per molti (troppi, direbbe qualcuno) film.

Da un lato c’è il senso di sicurezza che proviamo nel tornare a ciò che conosciamo e amiamo. La sensazione di essere in territori esplorati, di poter essere rilassati e abbassare la guardia perché sappiamo cosa troveremo e che quel che troveremo non ci farà male.
C’è anche il desiderio di rivivere il piacere che abbiamo provato la prima volta (o le multiple prime volte) in cui abbiamo conosciuto qualcosa. Il senso di scoperta e di sorpresa nel trovare qualcosa che ci facesse stare bene, accettati, felici, rilassati, al nostro posto.

Dall’altro c’è il fatto che viviamo in un mondo fatto di multipli e incessanti stimoli. Lo dico con la consapevolezza del fatto che è colpa nostra, perché abbiamo voluto che fosse così e abbiamo deciso che i duecento social network ai quali siamo perennemente connessi fossero la nostra fonte di distrazione principale e, anziché limitarli, abbiamo voluto far parte di tutto in una esasperata corsa al vedere cosa succede in un luogo o nell’altro. Possiamo chiamarla FOMO o possiamo accettare il fatto che riempie quei momenti di solitudine in cui potremmo stare fermi e pensare a quello che ci succede, ma, per qualche ragione, questa è una opzione spaventosa che non vogliamo affrontare.
Per questa ragione torniamo a ciò che conosciamo, perché è l’oasi dove possiamo sederci e tirare il fiato.

Per quanto mi riguarda, ascoltare per l’ennesima volta You’re gonna make me lonsome when you go o guardare per l’ennesima volta Tootsie o Le prenom è come ricevere una carezza. Come sentirmi dire “va tutto bene, ci sono ancora cose belle nei giorni difficili e sono qui che ti aspettano”.

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Intermission /4

Ti sei fatto un’idea di chi ti ha scritto cosa?

Di un paio di domande ho capito l’autore/l’autrice leggendole. Un paio di persone mi hanno scritto per dirmi che avevano fatto loro la domanda che ho postato. Altre ancora sono scritte da questa cavolo di app che sto usando, la quale – immagino per convincerti di aver fatto bene a scaricarla – ogni tanto ti manda delle domande anonime di rara intelligenza tipo “lo sporti più hot?” e “ti amooooo”.

I più grandi campanelli di allarme in una ragazza?

Quando ti scrivono da Regina Coeli.

Anything?

La chiusura del Bagaglino ci ha danneggiati tutti, guardiamo in faccia la realtà.

Vorrai eventualmente dei figli in futuro?

Aspetta, come sarebbe a dire “in futuro”? Chi è quella piccola sanguisuga che vive con me, allora?

So cosa hai fatto.

Siamo almeno in due.

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All you gotta do is just believe you can be who you want to be…

Ti fidi del tuo giudizio riguardo le persone? O ti fai influenzare da ciò che “è buono” perché lo dicono tutti?

Devo dire che riesco a farmi una prima, precisa impressione di qualcuno abbastanza facilmente. Normalmente se questa impressione è buona, la persona che ho davanti è qualcuno con cui mi sento a mio agio; non necessariamente diventiamo amici, ma si può creare un rapporto quanto meno civile e amichevole.

Le persone che mi fanno una brutta impressione, normalmente, sono persone che poi la confermano e con le quali non vado d’accordo.

Qui dovrei inserire tutto un paragrafo su come il fatto che non piacciano a me non significa che siano brutte persone tout court, però va detto che abbiamo tutti, credo, una buona opinione di noi. Possiamo non piacere a noi stessi per qualche difetto o per qualche motivo, ma credo che, in linea di massima, ci percepiamo come persone buone, degne e civili.

Per questa ragione, qualcuno che non ci piace, più o meno inconsciamente, tendiamo a catalogarlo come persona poco gradevole o, come diceva Petrarca, uno stronzo.

Sbagliamo nel farlo? È qui la vera domanda. Dobbiamo fidarci del non giudicare il libro dalla copertina? Io dico di sì. Dobbiamo conoscere qualcuno, prima di emettere un giudizio definitivo. Ma, detto ciò, quando ho avuto una pessima impressione di qualcuno, ci ho sempre azzeccato. Le rare volte che mi sono detto “ma no, dai, non è così male” (magari perché le persone mi dicevano che mi sbagliavo), con il tempo ho avuto la conferma che sì, era così male.

E vogliamo dircelo? È giusto così. Credo fortemente che dovremmo avere il diritto di trovare qualcuno odioso o urticante indipendentemente da quello che il mondo ci dice e stare lì, con le braccia incrociate sul petto, a pensare “ah se lo avevo detto” , quando il mondo deve ammettere che avevamo ragione.

Credo fortemente in ciò. Chiunque sia la persona che non ci piace.

A meno che quella persona non sia io, perché io sono adorabile.

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Intermission /3

Il peggior appuntamento al quale sei stato?

Una volta invitai una ragazza a uscire perché ero cottissimo di lei e lei lo sapeva e mi teneva a una discreta distanza, un po’ perché non era cottissima di me (per quanto non fosse propriamente del tutto indifferente), un po’ perché stava cominciando una relazione.
Riuscii a convincerla a cenare insieme, una volta che mi trovavo nella sua città, e andammo in un ristorante di carne caro come solo i ristoranti di carne delle grandi città sanno essere. La serata si svolse con una certa tensione di fondo, ma in generale non fu spiacevole, fino al momento in cui, per ragioni che mi sfuggono, mettemmo le carte sul tavolo e parlammo di noi o, per lo meno, di quello che “noi” significava, in quel momento della nostra vita.

C’è da dire, per la totale e aperta onestà che questa serie di post mi richiede, che ero in un periodo della mia vita un po’ complicato e dedicato all’amore promiscuo senza particolari filtri e lei lo sapeva.
Sapeva, soprattutto, che ero stato a letto con la sua coinquilina e, durante quella particolare conversazione, mi rinfacciò la cosa (cosa che, dal mio punto di vista, era incomprensibile, visto che non stavo né con la coinquilina, né con lei, ma che altrettanto mi era comprensibilissima, non essendo precisamente un ottimo biglietto di visita per le mie profferte amorose).
“E poi dormi a casa nostra e dormi sul divano? Che senso ha?” – disse, riferendosi a una mia precedente visita.
“Non ho capito, dove dovevo dormire? – ho chiesto, avendo ormai superato la fase della diplomazia e cominciando a essere irritato oltre modo – Con lei?”
“Eh.”
“Senti, io quella notte avevo prenotato un quattro stelle per me e ho rinunciato per dormire a casa vostra. Lo sai perché?”
“Perché?”
“Perché ti volevo vedere, idiota!” – ho esclamato, esasperato.

Il resto della cena, immagino sia chiaro, non è stato granché. Abbiamo mangiucchiato un dolce, scambiato due chiacchiere generiche. L’ho poi accompagnata all’autobus e sono tornato al mio hotel.
Ci saremmo scambiati un paio di mail, successivamente, ma le cose, tra noi, non sono mai andate in porto.
Ma, se vogliamo trovare un lieto fine in questa storia, mi sento di indicarne due: il primo è che, tutto sommato, la nostra mancata storia è un bene, perché temo non avrebbe mai funzionato, tra noi. Il secondo è che, anni dopo, siamo ancora molto amici e ci vogliamo molto bene. Il che è più di quanto possa dire di molte delle persone con cui sono uscito.

Quando è stato il tuo primo bacio?

A quattordici anni, con la prima ragazza con cui sono stato poi a letto (cosa, questa, che ricordo con un certo imbarazzo perché lei aveva più esperienza di me e, quando iniziò la cosa, ci infilammo a letto nudi e lei, probabilmente, si aspettava della iniziativa, da parte mia, mentre io fissavo il soffitto e pensavo “ci vorrebbe uno pratico”).
Questo se parliamo del primo bacio serio, poi ci sono le cose da bambini, ma suppongo (spero) non contino.

Per favore dimmi delle frasi per abbordare che funzionano sempre.

“C’è un aeroporto nelle vicinanze o è il mio uccello che sta prendendo il volo?”
(faccio schifo, ad abbordare, si nota?)

Di dove sono i tuoi genitori?

Mia madre è nata a Vienna ed è crescita a Stoccarda, mentre mio padre era di Nuoro. Negli anni ’60 mia madre si è trasferita dalla Germania in Sardegna (che, negli anni ’60, era come il resto del mondo negli anni ’20) e, nonostante il devastante shock culturale, sono rimasti insieme fino alla morte di mio padre, tre anni fa.

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But thinking young and growing older is no sin and I can play the game of life to win…

Qual è la cosa più stupida che pensavi da bambino?

In realtà, caro Anon, io non penso che da bambino si pensino cose stupide. Penso che ogni giudizio e idea sia relazionata alla nostra conoscenza del mondo e della vita e, indubbiamente, difettiamo nell’avere il reale polso di cosa siano, il mondo e la vita.

Non voglio fare quello che parla dei figli, ma il primo esempio è mia figlia. Succede che le si rompa qualche gioco o che, banalmente, finisca le batterie di un libro con audio. Di solito le è stato detto “ora papà te lo aggiusta” e, finora, sono stato capace di risolvere qualsiasi problema, con batterie o colla a caldo o scotch o cacciaviti.
Il risultato è che ogni volta che qualcosa, qualsiasi cosa, si rompe, c’è una bambina di due anni che mi guarda e chiede “lo aggiusti, papà?”. Perché, nella sua scarsa conoscenza del mondo, il padre aggiusta le cose che non funzionano sempre e comunque.

Mia figlia crede una cosa stupida? Oppure crede a quello che il mondo le ha mostrato, finora?
Confesso che, a volte, mi piacerebbe essere ancora così, anziché essere diventato più realista, più cinico e più disilluso.

Ma, tornando alla tua domanda, qual era la cosa più stupida alla quale credevo da bambino? Forse che sarei diventato un dottore (“così guadagno un sacco di soldi e quando è ora di pranzo bacio mia moglie”, come scrissi in un compito alle elementari). Mi sarebbe piaciuto. Credo che ancora adesso, se potessi esserlo, lo vorrei fare.

Ma da bambino vuoi diventare un dottore perché la tua esperienza ti ha detto che sei bravo a misurare la temperatura dei tuoi peluche e poi la tua vita ti ha spiegato che, davanti a qualsiasi materia scientifica, il tuo cervello si chiude come le porte di Moria davanti a un orco e che, quindi, ecco, magari cerchiamo una carriera alternativa, amico mio.
Però ho visto tutte le stagioni di ER e quindi, come dire, sono praticamente un medico.

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I know a place, Ain’t nobody cryin’, ain’t nobody worried, ain’t no smilin’ faces…

In quale città* ti sei sentito potenzialmente a casa?
(*che ha visitato, non dove hai/hai avuto casa)

Io amo moltissimo Parigi. E amo moltissimo Parigi perché ho avuto la fortuna di avere dei genitori che me l’hanno fatta conoscere e me ne hanno fatto innamorare. Che mi hanno insegnato il piacere di camminare per ore e scoprire angoli nascosti e luoghi meno tipici (tipo perdersi nei supermercati cinesi e comprare cibarie sconosciute, cercando di capire come si cucinano).
Parigi è una città enorme, ma a misura d’uomo. Non ti senti mai perso, hai la sensazione di poter arrivare ovunque, con facilità, in qualsiasi momento. Ha scorci di bellezza ovunque ed è capace di darti qualsiasi cosa tu cerchi: arte, architettura, una società cosmopolita, scorci di una bellezza mozzafiato.
Ho sempre detto che, idealmente, mi sarebbe piaciuto andare a vivere e a morire lì.

(poi, a voler essere onesti, Parigi ha anche un costo della vita intollerabile, puzza di pipì in estate e discreti luoghi dove ti tagliano la gola senza manco salutare, eh? Però, ecco, i piatti della bilancia ancora pendono dal lato dell’amore)

Molti anni dopo, ho provato la stessa cosa per Londra, tanto da valutare, per un certo periodo, di lasciare tutto e trasferirmi a vivere lì (e c’è da dire che, in quanto a costo della vita, credo che Londra – ma l’Inghilterra più in generale – sia molto peggio di Parigi).

I nostri viaggi a Parigi, con il tempo, hanno sviluppato la mia passione per le vacanze in cittadine straniere da solo. Mi è sempre piaciuto incamminarmi e girare per ore, senza meta precisa, a parte, magari, quel museo o quel monumento che fanno parte delle cose imperdibili.
Ho sempre amato sedermi ai tavolini dei bar, lungo le strade e guardare la gente che passa, spiare com’è la vita in un posto diverso, come sono i ritmi, come si comportano le persone, quali sono le abitudini.
Adoravo prendere il computer e scrivere, mentre scrutavo la vita di tutti i giorni passarmi accanto, mentre capitava di conoscere qualcuno, di scambiare due chiacchiere, di raccontarsi le cose, perché a volte è più facile instaurare un dialogo con un perfetto sconosciuto che con qualcuno che conosci da una vita.

Mi sono sempre sentito a casa in posti in cui potevo rilassarmi, bere una cosa e chiacchierare con qualcuno: un barman, un cliente, un negoziante, un vicino di tavolo, un altro turista. Ho conosciuto persone interessanti e variopinte: spacciatori, spogliarelliste, poliziotti in borghese, artistoidi, prestigiatori, anche un fachiro.

Casa è ovunque ti senti in pace, perché sentirsi in pace è difficile e, quando succede, ti leghi ai luoghi e alle persone che hanno permesso a questo piccolo miracolo di avvenire.

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Senza averlo deciso prima.

(ieri sera ho finito la prima stesura del nuovo libro)

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Intermission /2

Ti voglio bene ti

Ti ringrazio, probabilmente te ne voglio anche io. Probabilmente non te l’ho mai detto perché sono un orso malmostoso, ma, spero, sotto sotto, lo saprai senza che lo dica chiaramente.

Quanto sei nerd da 1 a 10?

Molto meno di un tempo e anche con una certa stanchezza e consapevolezza della cosa. Ormai leggo articoli su giochi di ruolo e/o fumetti che parlano di manuali, giochi, storie, personaggi che io non ho idea cosa siano, quando siano usciti e chi ne sia l’autore, Da un certo punto di vista, mi dispiace. Dall’altro ho abbracciato una filosofia più minimalista, sulle mie passioni.

Parli un’altra lingua?

Ne parlo, più o meno bene, cinque. Riesco a farmi odiare in tutte.

Ma invece di strani progetti…un po’ di cocaina?

Non mi drogo.

Dovrei essere sincero con te riguardo questo?

Non so cosa sia “questo”. Di norma la sincerità non è mai necessariamente un male, fino a quando non la si scambia con la cattiveria mascherata da tale.

Hai un bello stile.

Grazie.
A meno che non parli di vestiti, in tal caso il mio sincero consiglio è di non scrivere dopo avere alzato il gomito.

Cani o gatti?

Amo entrambi, ma preferisco i gatti per una questione di semplicità nella gestione.

Sei etero?

Non sempre.

Hai meditato?

No, però ho fatto gli esercizi su Duolingo.

Preferisci guidare nel posto anteriore o posteriore?

Dipende dalla macchina. O dal mio desiderio di morte.

Vorrei che parlassimo di più.

Scrivimi. Sono in un momento della mia vita dove devo fare mille cose e me ne dimentico 950, quindi magari ti vorrei scrivere io, “poi lo faccio” e, di colpo, sono passati dieci giorni. Ma se mi scrivi, risponderò sicuramente e con piacere.

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Intermission /1

Inventa una storia con le parole nave, testamento, canguro, fragoline di bosco.

Jonah McFayden non avrebbe mai pensato che sarebbe morto su una nave.

“Ma del resto – ammise tra sé e sé, – mai avrei pensato che sarei salito su una di queste macchine infernali.”
Stava per aggiungere altro, nella sua mente, ma improvvisamente la salivazione aumentò e senti lo stomaco attorcigliarsi. Imprecò a bassa voce mentre, nello stesso momento, pregava il Signore di risparmiargli di vomitare ancora. Non che Jonah McFayden fosse mai stato un buon cristiano. Se per quello, non era neanche un buon protestante o un buon buddista. Jonah McFayden non aveva un buon rapporto con nessuna divinità e con quasi nessun rappresentante della stessa che calpestasse la cara, vecchia Terra.
L’unica era eccezione era per padre O’Dowdy, il parroco del suo paese, che era un maledetto baciapile, ma ogni venerdì sera beveva con lui al pub e, dopo qualche pinta, era più divertente e, visto come reggeva l’alcol, degno di rispetto.
Comunque, il Signore pareva non prendere sul personale l’ostilità di Jonah McFayden, perché gli risparmiò un altro round di vomito, poggiato alla balaustra di quella carretta che lo stava portando via dalla sua isola per andare incontro alla civiltà.

“Sotto vento, signore, mi raccomando”, esclamò un marinaio, ridendo, mentre gli passava accanto, le braccia cariche di pesanti corde spesse quanto il suo collo.

Jonah McFayden non lo insultò perché era troppo impegnato a tenere lo stomaco al suo posto, ma si appuntò di dirgliene un paio, quando si fosse sentito meglio. Se questo fosse mai accaduto, ovvio.

“Ragazzo…”, biascicò, fermandolo con una mano sulla spalla.

“Sì, signore?”

“Quanto manca all’arrivo?”

“Siamo appena partiti, signore”, rispose il giovane, con lo sguardo sorpreso. Non dovevano essere passati molti inverni, dalla sua maggiore età e sul volto rosso, brillavano due occhi di un verde splendente.

“Ma io”, disse Jonah McFayden allungando lentamente una mano e puntando con un dito tremante ” vedo la terra.”

“Quella è la riva da cui siamo partiti, signore”, rispose il marinaio, ridendo. Poi indicò un punto lontano, nella direzione opposta e sorrise, amichevole. “È lì che stiamo andando. Ci vorrà ancora una notte di viaggio, arriveremo con le prime luci del giorno.”

Jonah McFayden emise un gemito e si sporse oltre la balaustra, sentendo il vomito risalire come un vulcano in eruzione lungo il suo esofago.

“Credo che sarà uno dei giorni più belli della sua vita”, disse il marinaio, prima di allontanarsi ridendo.

Durante la notte, Jonah McFayden uscì di nuovo all’aria fresca: il mare era più calmo e il rollio delle onde, per quanto insopportabile, gli parve meno atroce. O forse aveva rimesso tutto ciò che poteva e ora nel suo corpo restavano solo le budella e il suo rancore verso il viaggio che aveva intrapreso.
Alzò lo sguardo e osservò il cielo stellato, limpido, godendosi le costellazioni che non vedeva da troppo tempo, da quando, nel suo villaggio, ogni strada aveva l’illuminazione anche di notte e, in questo modo, aveva privato tutti gli abitanti del piacere di ammirare l’immenso sopra di loro.

“Progresso, lo chiamano”, bonfocchiò con amarezza.

Si guardò intorno e vide il giovane marinaio seduto in un angolo, nel buio. Lo riconobbe perché il suo volto fu illuminato dalla punta rossa della sigaretta che stava fumando. Si avvicinò lentamente, desideroso di rinfacciargli la sua mancanza di tatto e supporto, ma in realtà conscio di essere troppo stanco per farlo.

“Buonasera, signore”, disse il giovane, con un sorriso.
Jonah McFayden rispose con un grugnito e un cenno del capo.
“Sta meglio?”
Lui scosse la testa e guardò il mare, nero come la pece. Uno spettacolo che gli metteva angoscia e desiderio di fuggire da lì, se mai fosse stato possibile.
“Primo viaggio in nave?”, chiese ancora il giovane marinaio.
“Così è”, rispose Jonah McFayden. “E se il cielo mi sarà d’aiuto, una volta tornato a casa, non ce ne saranno altri.”
“Che Dio l’ascolti, allora, signore”, rispose il giovane, facendosi il segno della croce.
Jonah McFayden grugnì ancora una volta e si sedette accanto a lui, lentamente, con cautela, cercando di intercettare ogni segnale che gli dicesse che stava per vomitare ancora.
“Guardi – disse il giovane, indicando il cielo, – quella è la costellazione del canguro.”
Jonah McFayden, che aveva alzato lo sguardo, volse gli occhi verso il marinaio, un’espressione tra l’indignato e il disgustato sul volto.
“Non c’è nessuna costellazione del canguro, non dire sciocchezze, figliolo.”
Il marinaio scrollò le spalle e diede un tiro alla sigaretta.
“Pensavi davvero che fossi così sciocco da cascarci?”, chiese, allora, Jonah McFayden.
“Non volevo farla cadere in nessun tranello, signore.”
“E cosa ti faceva pensare che avrei creduto all’esistenza di una costellazione del canguro?”
“Magari non conosceva le stelle.”
“Non dire sciocchezze, ragazzo. Quale uomo non le conosce?”
“Be’…io, per esempio”, disse il giovane, dopo averci riflettuto un attimo.
Ci fu un momento di silenzio, durante il quale i due si fissarono. Jonah McFayden cercava di capire se lo stava prendendo in giro, ma quell’altro aveva un’espressione tremendamente seria e, contemporaneamente, serena. Si grattava i capelli ricci con un gesto che denotava un leggero imbarazzo.
“Com’è possibile? Sei un marinaio.”
“Embè? Mica uno deve conoscere tutte le cose, no? So fare i nodi e leggere il vento e pelo le patate. Non ho avuto il tempo di imparare le costellazioni. Lo farà qualcun altro per me.”
“Ma tutti conoscono le costellazioni…voglio dire, a parte te, tutti le sanno.”
“Però tanti non sanno pelare bene le patate.”
“Figuriamoci”, sbuffò Jonah McFayden.
“Eh sì, signore, sì. Sono tutti bravi a dire qual è l’Orsa Maggiore e però poi li porti in cambusa e, insieme alla buccia, si tirano via metà patata e tu hai fame e ti rimane l’acquolina in bocca perché quella che doveva essere una zuppa di patate è a malapena un brodino di patate novelle.”
Jonah McFayden lo osservò di nuovo perplesso, ma il giovane reggeva il suo sguardo inquisitore senza dire una parola.
“Come se nei ristoranti – disse – non fosse pieno di giovani che tagliano le patate per bene. A pelo. Lisce. Senza sprechi.”
“Embè che c’entra? Nei ristoranti ti fanno anche una torta di fragoline di bosco che ti lecchi le dita, dopo averla mangiata. Lo so perché ne ho avuto al matrimonio di mia sorella. Si è sposata con uno che c’ha i soldi, un avvocato o qualcosa del genere, e c’era la torta con le fragoline di bosco ed era così buona che ne ho preso due volte e ho mangiato anche la fetta di mia nonna, che mia nonna è vecchia e ha quella malattia dello zucchero.”
“Il diabete.”
“Quella. Ma la vuoi sapere una cosa, signore? Non c’erano patate. Ci hanno dato un sacco di cose buone da mangiare, ma non c’erano patate. Qualcosa vorrà dire, no?”
Jonah McFayden, forse una delle prime volte della sua vita, non sapeva cosa rispondere. Si tastò le tasche e, quando trovò la fiaschetta di whisky, la tirò fuori e svitò il tappo. Il forte odore di alcol barricato lo fece sentire meglio, anche se non era sicurissimo di poterne bere troppo. Diede un sorso, con cautela, bagnandosi le labbra e godendosi il sapore, mentre il marinaio si accendeva un’altra sigaretta.
“Non devi lavorare?”, gli chiese, un sopracciglio alzato.
Quello scrollò le spalle e emise il fumo in dei bellissimi cerchi, perfetti e leggeri, che scivolarono nella notte, sparendo con rapidità dalla loro vista.
“Devo pulire il ponte”, ammise.
“Non passerai dei guai, se non lo fai?”, chiese Jonah McFayden, prima di bagnarsi ancora una volta le labbra. Stavolta si azzardò anche a bere un piccolissimo sorso, quasi infinitesimale.
“Tu ci faresti caso se il ponte è pulito o sporco, signore?”
“No, io no”, ammise lui. “Ma non è il mio lavoro. Magari il tuo capitano se ne accorgerebbe.”
“Eh infatti se ne accorge. Maledetto lui, vorrei sapere come fa. Forse è quello il suo dono, forse sa riconoscere i ponti puliti.”
“Magari non sa sbucciare le patate”, disse Jonah McFayden, abbozzando un sorriso.
Il marinaio lo guardò sorpreso per un istante e poi cominciò a ridere. Una risata rumorosa e franca, la risata di qualcuno che non ha molte occasioni per farle e, quando gliene capita una, non se la lascia sfuggire.
“Questa è buona, signore. Nossignore, non le pulisce le patate, lui. È il capitano, è troppo importante. Scommetto che, quando era un mozzo come me, non lo faceva lo stesso, perché ha la faccia di uno che non sa pulirle.”
“Il mondo si divide in due categorie, quindi?”, il giovane lo fissò con uno sguardo un po’ vuoto, la risata era già un lontano ricordo. “Ci sono due tipi di persone al mondo: chi sa sbucciare le patate e chi no. Giusto?”
“Giusto, signore.”
“Va bene”, disse Jonah McFayden, “ho visto classificare le persone in maniere molto peggiori di queste.”
Il giovane fece ancora degli anelli di fumo e poi gli diede di gomito.
“Posso chiederti dove stai andando, signore?”
“Puoi chiedermelo. Sto andando al funerale di mio fratello.”
“Oh signore, mi dispiace. Ti faccio i miei auguri, per la morte di tuo fratello.”
“Le condoglianze.”
“Quelle.”
“Grazie, sei molto gentile.”
Ci fu un po’ di silenzio e, come spesso accadeva negli ultimi giorni, da quando aveva ricevuto la lettera che gli annunciava che il fratello era passato a migliore vita, Jonah McFayden ripensò alla loro ultima conversazione, alle poche, terribili, parole che si erano dette e che avevano lasciato solo il freddo e l’eco del silenzio che si era instaurato tra di loro.
“Non si dovrebbe morire lasciando delle cose in sospeso”, disse, tra sé e sé.
“È vero, signore. Mio padre è morto lasciandoci un sacco di debiti e io sono su questa nave a pulire ponti, per questo.”
“Oh mi dispiace per te. Non deve essere una bella situazione,”
“Non lo è, signore. I ponti da pulire non finiscono mai, perché sono sempre sporchi e tu li pulisci e quelli si sporcano di nuovo. Sapevo che mio padre non ci avrebbe lasciato molto, non pensavo che ci sarebbe stata una lettera dove ci regalava le cose…come si chiama?”
“Il testamento?”
“Quello, signore. Non mi aspettavo che mi testamentasse, però non pensavo ci avrebbe lasciato dei debiti.”
“Tua sorella non ha sposato un uomo ricco?”, chiese lui, prima di sorseggiare un po’ di whisky.
“Invero sì, signore, ricco come quelli delle storie di persone ricche, con i castelli e i cavalli bianchi. Solo che lui non ce li ha, i cavalli bianchi. E neanche i castelli. Però ha una grande casa e ci sono dei cavalli e anche dei servi, se ho capito bene.”
“E quest’uomo non potrebbe darvi dei soldi per i debiti?”
“Oh no signore, non si può.”
“E perché?”
“Perché i debiti ora sono i miei, perché io sono il figlio maschio e ora sono l’uomo di famiglia e quale uomo chiederebbe alla sorella di dargli i soldi, soldi che lui che è l’uomo dovrebbe procurare?”
“Be’…non dovresti pulire ponti.”
“Già”, ammise il ragazzo e si ammutolì, poi scrollò le spalle. “Ma non posso. Sono l’uomo di casa. E posso pulire i ponti.”
“E pelare le patate.”
“A me piace pelare le patate, signore”, disse, quasi oltraggiato.
“Davvero?”
“Certo. Sono bravo a pelarle, io. Siete sicuro di stare bene, signore? Credevo avessimo già chiarito questa cosa delle patate.”
Jonah McFayden sorrise. Che strano incontro. Che strana notte.

Rimasero in silenzio, poi, di colpo, Jonah McFayden diede di gomito al ragazzo e puntò il dito verso il cielo.
“La vedi quella costellazione là?”
Il marinaio inclinò la testa e seguì nella direzione indicata dal dito.
“Sì, signore.”
“Che costellazione è?”
Ci fu silenzio. I due si guardarono e poi si sorrisero.
“È la costellazione della monaca zoppa, signore.”
“La monaca zoppa”, disse Jonah McFayden, sorridendo ancora. “Giusto. Non l’avevo riconosciuta.”

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Words are very unnecessary they can only do harm…

I rapporti interpersonali al tempo dell’Internet mi affaticano. Anziché essere tutto più semplice, mi sembra che tante cose si siano complicate. Non si riesce più a parlare in maniera diretta.

In realtà ho come il timore che ci siano due binari differenti per quanto riguarda la comunicazione su Internet.
Da un lato c’è la comunicazione con quelli che sono estranei o persone che conosciamo appena e che incrociamo per le ragioni più varie: amici di amici, gente che frequenta lo stesso gruppo di appassionati di serie televisive o cucito, commentatori di Roma Today (you know who you are).
Con questa gente, spesso, ci sentiamo liberi di esprimerci con pochi filtri perché sono persone che non conosciamo e che stanno dietro a uno schermo. Lo so che non è una riflessione particolarmente originale, tutti, prima o poi, abbiamo risposto male a qualcuno che non abbiamo idea di chi sia, tradendo il sempiterno quesito “ma se fosse uno che incroci sull’autobus, useresti quel tono e quelle parole?” (di questo, ovviamente, mi dichiaro colpevole e recidivo perché normalmente cerco di non parlare con le persone, ma poi ho le giornate storte e allora se trovo l’occasione sfogo le mie nevrosi sul malcapitato di turno) (malcapitato che, però, spesso è un fascista o un imbecille, va detto) (tra l’altro, le due categorie normalmente coincidono).
Il punto è: ma perché lo facciamo? Cosa ci spinge a voler a tutti i costi condividere i nostri pensieri con perfetti estranei. Aggiungo: perché, soprattutto, sentiamo la necessità di farlo con qualcuno che già sappiamo in partenza essere una causa persa (e non perché lui o lei sia peggio di noi, per quanto lo possiamo pensare, ma perché, se siamo agli antipodi nel modo di vedere le cose, sappiamo bene che sono tempo, energie e serenità sprecate.
Queste ultime tre cose, soprattutto ora, soprattutto dopo l’ultimo paio di anni, le ritengo così preziose e limitate, che ne ho fatto una regola, io, di cercare di evitare di buttarle in cose inutili (assieme alla regola di non possedere mai una posseduta. Se sapete, sapete).

Mi sento di dire, e dovrebbe, giuro, secondo me, essere una regola aurea un po’ per tutti, che se non abbiamo una parola gentile da dire, allora meglio non perdere tempo a parlare. Se il commento che vogliamo lasciare all’esimio sconosciuto davanti a noi è tagliente, sarcastico, pungente, offensivo, provocatorio o anche soltanto mirato a infastidire, possiamo lasciare stare. Non ne vale la pena.
L’ho provato per voi e, ve lo giuro, funziona a meraviglia e risparmia un sacco di fastidi.

Sulla questione comunicazione con le persone che conosciamo, ritengo che la facilità con cui ora possiamo comunicare (che, lo dico a scanso di equivoci, è nella sua forma più pura un gran bene) ci sta portando verso una sovra condivisione di contenuti non necessari.
In altre parole: un sacco di gente che conosco, gente alla quale voglio un gran bene e che rispetto per una miriade di motivi, ha intrapreso una forma di comunicazione con me (specialmente in quelle fumerie d’oppio nelle quali si trasformano le chat di gruppo) nella quale condivide qualsiasi cosa passi per la testa o succede nella sua vita. Cose belle e cose brutte, ma anche cose trascurabili e che, probabilmente, in una conversazione faccia a faccia, non condividerebbe perché, be’, perché chi se ne frega, in fondo?
La cosa che mi affatica maggiormente della comunicazione online è proprio questa ed è questo che mi ha, in qualche modo, allontanato dai social network (uso pochissimo sia Facebook che Instagram, ormai, e condivido ancora meno di prima le mie cose personali).
Non dico che dovremmo tenere un po’ di mistero nelle nostre vite, ma che, a volte, dall’altra parte, ci sta qualcuno a cui, magari, dell’ennesimo aneddoto su una cosa della nostra vita che, in fondo in fondo, non è tanto eccitante neanche per noi, non ne sente precisamente il bisogno (c’è un altissimo numero di virgole, in questo paragrafo, convengo).

Non ho una soluzione. O meglio, la mia soluzione è stata ridurre un po’ la quantità di cose che scrivo ogni giorno alle persone a cui voglio bene (cosa che non si direbbe, a giudicare da questo papiro, lo so) e, a volte, quando sto per premere “invio”, fermarmi e chiedermi se l* person* dall’altra parte hanno una qualche colpa da espiare, per meritarsi quanto sto per inviare.
E, spesso, la risposta è no e quindi non invio.

P.S. Poi anche a ‘sto giro, caro Anon, ti lascio un TedTalk che, in alcune cose, mi trova d’accordo.

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